Nel film di Joshua Oppenheimer la colonna sonora, firmata da Joshua Schmidt e Marius de Vries, non è un semplice commento musicale: è struttura portante, drammaturgia in sé. Al cinema. Vai all'articolo
Emanuele Sacchi
Dopo decenni di solitudine, una famiglia benestante che vive in una miniera di sale entra in contatto con una ragazza sconosciuta.
In The End, Joshua Oppenheimer abbandona le forme documentarie che hanno definito il suo cinema per esplorare un territorio radicalmente diverso. Almeno apparentemente, visto che la citazione di un massacro compiuto in Indonesia sembra riportarci idealmente al dittico composto da L’atto di uccideree The Look of Silence. Lo scioccante re-enactement degli atti di violenza di quei titoli diviene ora perenne messa in scena, pantomima destinata a essere recitata ad aeternum per scongiurare l’apocalisse e dimenticarlo. Un’operazione radicale, quella del regista americano in The End, che si serve del musical, il genere cinematografico più astratto e sradicato dal reale.
A colpire immediatamente lo spettatore è l’apparato visivo, barocco e glaciale, del bunker in cui si rifugia l’Ultima Famiglia dell’umanità. E poi arriva il suono, a sostenere l’intera impalcatura emotiva del film, traghettando lo spettatore verso la fine di un mondo vissuta fino all’ultimo nell’ipocrisia e nella negazione. Vai all'articolo
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